Welcome Friends! In Italia c'è chi accoglie

Nour gioca nel cortile, il padre Yahya, 46 anni, lo guarda dal balcone e con la voce che tradisce la commozione dice all'interprete: «Mio figlio non ha mai corso in un prato, ha sempre vissuto rintanato per paura delle bombe». Il piccolo ha tre anni e con i genitori, la sorella nata lo scorso anno e gli zii appartiene al primo nucleo famigliare siriano – 10 persone in tutto, musulmani sunniti -  arrivato nella notte del 29 febbraio in Piemonte da Al Minja in Libano, con i corridoi umanitari promossi dalla Comunità di Sant'Egidio e la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia con la collaborazione dell'Operazione Colomba, corpo civile di pace dell'Associazione Papa Giovanni XXIII che dal 2014 opera nei campi profughi ai confini con la Siria. Ad accoglierli e ad accompagnarli per i prossimi 18 mesi la comunità parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo di Leinì che con il sostegno della Pastorale dei Migranti torinese ha accolto l'appello di mons. Nosiglia a offrire ospitalità e vicinanza ai profughi che arrivano in Italia per sfuggire a persecuzioni, guerre, povertà.

«A settembre  – spiega il parroco don Pierantonio Garbiglia – abbiamo pensato a come raccogliere l'invito dell'Arcivescovo e abbiamo deciso di destinare all'ospitalità dei profughi una casa della parrocchia che avevamo a disposizione. Con l'impegno di tutti l'abbiamo rimessa a posto e trasformata in un alloggio con tre camere da letto, un bagno, un salotto e una cucina. Poi in collaborazione con la Pastorale dei Migranti abbiamo dato la nostra disponibilità e ora per 18 mesi cercheremo di aiutare questa famiglia. In un primo tempo li sosterremo nell'ambientarsi, il piccolo andrà alla scuola materna secondo quanto sceglieranno i genitori, poi li affiancheremo nel percorso verso l'autonomia».
«Ringrazia la tua comunità – ha scritto l'Arcivescovo a don Garbiglia – che con la tua guida ha accolto la famiglia siriana  offendo un segno concreto di amore che il Signore certamente accompagnerà con la sua Grazia e mi auguro che altre parrocchie seguano il vostro esempio». Un esempio fatto di aiuti concreti, ma anche di amicizia che i volontari della parrocchia hanno offerto sin dalle prime ore dell'arrivo a Leinì della famiglia. C'erano nella notte ad accoglierli e poi la mattina seguente di nuovo pronti per organizzare la spesa, capire le prime necessità, mettere a proprio agio tutti i componenti del nucleo, tra cui anche un uomo disabile, in carrozzina.
«Ci riempie di gioia questo arrivo e siamo contenti di impegnarci per questa accoglienza – spiega Daniela Gravino con il marito Renzo Marcato tra i volontari (una trentina) cui ora la famiglia di Yahya è affidata – All'inizio quando a settembre ne abbiamo parlato in Consiglio Pastorale c'erano pareri discordanti, perplessità timori. Poi a poco a poco si è innescata una vera gara di solidarietà: con un questionario abbiamo proposto alla comunità varie possibilità per contribuire al progetto: mettendo a disposizione del tempo, o degli  aiuti concreti, o aiuti economici e davvero tanti hanno aderito. Chi ha regalato capi di abbigliamento, alcune famiglie stanno pagando la lavatrice, altri hanno donato i loro elettrodomestici… si è colto il significato che tutti potevano contribuire per donare un po' di speranza e futuro a persone che hanno perso tutto».
Una mobilitazione nello spirito di condivisione incoraggiato in molte occasioni da mons. Nosiglia che ha impressionato sin dai primi momenti la famiglia di Yayha: «Pensando al mio futuro qui – racconta – penso al sorriso con cui sono stato accolto dai volontari dell'Operazione Colomba che ci hanno accompagnato qui e da quanti ci stanno ospitando. Un sorriso che parla di pace ed è questo che spero per la mia famiglia nel vostro Paese».
Parole di speranza da chi dice «Ormai delle mie città, Tartus, Homs, della mia casa ho solo il ricordo nel cuore perché tutto è andato distrutto», da chi ha sperimentato il carcere per essersi adoperato per il dialogo interreligioso, per aver accolto nella sua casa connazionali in fuga, da chi ha cercato di proteggere il proprio figlio che a soli tre anni era già ricercato dalla polizia siriana come un criminale».
«La loro storia – racconta Alessandro Ciquera dell'Operazione Colomba che ha vissuto nel campo profughi libanese di Tel Aabbas – è una storia di dolore e persecuzione. Sono dei sopravvissuti perché oggi in Libano i bambini siriani non hanno né scuola né assistenza sanitaria, muoiono per il freddo o per malattie che si potrebbero curare. I Siriani in Libano non possono permettersi di pagare il permesso di soggiorno e per questo rischiano continuamente di essere incarcerati. Per loro si trattava di continuare a vivere nella paura».
Una paura che nel cortile della nuova casa a ridosso della parrocchia di Leinì sperano si trasformi presto, soprattutto per i bambini, in un ricordo lontano. «Questa notte  - conclude Yayha – qui è stata la prima in cui abbiamo dormito serenamente, grazie per questo» e mentre parla gli occhi si fermano ancora su Nour: «finalmente gioca tranquillo». 
Federica Bello
da "La Voce del Tempo" (3/3/2016) 



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